DER  PALAST

Der palast, 2018, pennarelli ad alcol e matita su carta
Der palast, 2018, pennarelli ad alcol e matita su carta

Bruno, l’anziano custode, camminava lungo il corridoio abbandonato dell’ultimo piano, i suoi passi schioccavano grigi nel vuoto. Giunto alla porta dell’attico l’aprì per controllare che non ci fosse più nessuno. Le squadre di demolizione sarebbero arrivate presto.

Appena dentro, la gola si strinse per l’emozione. La grande sala deserta, annerita dalla polvere e dall'umidità, non era che lo spettro di quello che era stato l’appartamento più prestigioso della casa. La tristezza sopraffece Bruno che dovette appoggiarsi allo stipite della porta. Il legno scricchiolò. "Come le mie ossa," pensò.

La palazzina Bauhaus sorgeva lontano dal centro, circondata da un prato che, in quegli ultimi anni della sua esistenza, era adibito a parcheggio, discarica, bordello, e parco giochi. Non era stato sempre così.  

«Questo palazzo è speciale,» gli aveva detto il padre una volta, «è vivo.»

La grande casa era sorta quindici anni prima che lui vedesse la luce in quello stesso stabile, figlio del custode. La costruzione era dei ruggenti anni Venti, concepita in stile Bauhaus che gli aveva donato la nettezza della luce: linee rette, forme asimmetriche, alte vetrate.

Appena inaugurato, splendente e leggero, fu la dimora di numerose personalità di quell'epoca di lustrini e chiffon. Il padre raccontava che l’attico era stato acquistato da un famoso attore che vi teneva ricevimenti epici, a passo di Charleston e alimentati a champagne.

Ma la grande crisi del ’29 si abbatté sulla sfavillante alta società del tempo e subito dopo le guerresche note di Wagner soffocarono lo swing.

Le piume di pavone vennero sostituite da rune argentate e croci uncinate. Nel palazzo non risuonarono più le risate solari delle ragazze, ovunque la radio diffondeva gracchianti discorsi del colore della terra e del sangue. La guerra si manifestò sotto forma di una pioggia di bombe.

Il padre aveva ragione a dire che la casa era speciale perché il palazzo fu l’unico edificio del quartiere a non venire raso al suolo dagli aerei alleati. Bruno al tempo dei bombardamenti aveva sei anni e ne conservava ricordi vaghi. Il rombo cupo degli aerei, le notti trascorse nel rifugio con la testa sulle gambe della mamma, il cielo rosso di fiamme quando suonava la sirena del cessato allarme e si poteva uscire. Bruno ricordava le rovine e strani manichini anneriti gettati per strada. Solo più tardi si rese conto di aver visto dei corpi bruciati dalle bombe incendiarie. Ma il ricordo più vivido era casa sua fuligginosa, scheggiata ma intatta. Bruno decise che da lì non se ne sarebbe più andato.

Gli anni successivi trascorsero pacifici, la vita riprese a vibrare investita dalla dolce onda d’urto di uno speranzoso benessere. Gli inquilini cambiarono, non era più la società del jet set ma normali famiglie, niente più feste danzanti, nessun calice di cristallo sarebbe mai più piovuto sul prato dalla terrazza dell’attico, accompagnato da ilarità e sorpresa. Quantomeno, dai giradischi non si sarebbero più udite parole di odio, ma un innocuo Boogie-Woogie, e più tardi il Rock ‘n’ RollNegli anni settanta le cose peggiorarono: il condominio scivolò nell'indifferenza. Dieci anni dopo era in degrado.

Bruno si scosse dai ricordi, fece il giro dell’attico illuminato di una luce sporca e poi ridiscese le scale. Udì i furgoni della ditta di demolizioni frenare nella terra.

Ad ogni piano Bruno sentiva l’aria infilarsi dalle finestre rotte gonfiando le stanze come polmoni asmatici. I muri risuonavano del gorgogliare dei tubi secchi: pance vuote, cuori spompi. Ad ogni corridoio che attraversava per l’ultima volta il suo pensiero andava agli ultimi inquilini. Lui se li ricordava tutti, ma gli ultimi gli erano rimasti nel cuore. Erano i disperati, quelli relegati ai margini di una società priva di compassione e di sostanza, erano i moderni manichini gettati per strada, bruciati dal fuoco dell’arrivismo e dell’apparenza. C’era Martha, ex tossicodipendente, che arrotondava andando con i vecchi per cinque marchi. C’era Grete, vedova obesa che accendeva una sigaretta con la cicca della precedente, e che aveva il figlio in galera. E Anton, vecchio reduce, che viveva segregato in casa per paura dei russi.

Bruno si sentiva addosso tutta la vita che era passata dentro alla casa.Terminò il giro e uscì dal palazzo.

Gli uomini in tuta e caschetto giallo stavano scaricando rotoli di filo elettrico.  Il capo, con il cipiglio del chirurgo, dava disposizioni su come e dove piazzare l’ultima carica e collegare i fili: si doveva fare presto, entro il tramonto doveva saltare tutto.

Un ragazzo imbracciò un martello pneumatico e iniziò a bucare.

Forse là c’è una colonna portante, pensò Bruno, osservando il lavoro.

Dopo pochi colpi dal buco cominciò a sgorgare un liquido lento, d’un rosso rugginoso. Il ragazzo si fermò e chiamò il capo: «Un’infiltrazione,» diagnosticò, «continua, piazza l’ultimo candelotto.»

Quando il ragazzo si allontanò per prendere l’esplosivo Bruno si chinò e studiò da vicino quel liquido scuro, vi immerse le dita e si ripassò la sostanza sui polpastrelli. A lui pareva una cosa sola.

Gli occhi gli si riempirono di lacrime e capì che non poteva assistere a quello spettacolo. Mentre il ragazzo gli dava le spalle, Bruno entrò nel grande atrio, rifece le scale su fino in cima, entrò nell'attico e chiuse la porta poi andò sulla grande terrazza. Bloccò la porta con un vecchio ombrellone e una sedia rotta, si sedette e attese il tramonto.