Nessuno ha mai saputo il suo vero nome. Qualcuno lo chiamava “il bretone” perché si diceva che provenisse dal porto di Saint-Nazaire, in Bretagna. Altri giuravano che non era per niente bretone ma italiano, che si chiamava Mario, e che era un uomo di mare, di quelli con il sale nelle vene. I marinai più anziani, nelle bettole dei vicoli del porto vecchio, raccontavano che era un duro e che aveva ucciso degli uomini, ma erano solo voci perché lui non parlava con nessuno. Camminava da solo, lungo le banchine del porto, con le mani in tasca, fumando Gitanes senza filtro. Guardava davanti a sé senza curarsi di nessuno, il viso bruciato dal sale e dal sole non tradiva emozioni. Ogni giorno arrivava fino al faro e là si fermava appoggiato al frangiflutto. Stava fermo per ore a fissare l’acqua, le barche e le navi che sfilavano davanti al molo, in entrata e in uscita dal porto. Il suo volto rimaneva impassibile. A un certo punto della giornata qualcosa cambiava, si scuoteva, come da un sogno, come se si rendesse conto di essere in ritardo ad un appuntamento. Allora andava al molo delle barche da diporto e là si fermava a
guardare i ragazzini della scuola di vela sulle loro piccole barche bianche. Osservava con occhi attenti le loro manovre, e quando qualcuno di loro, durante una virata, investito da un’onda, non mollava il timone ma continuava a governare la barca bagnato dalla testa ai piedi e con gli occhi rossi, allora il volto del “bretone” si trasformava: le infinite rughe sottili, che segnavano la sua pelle di cuoio con un fitto reticolo, si corrugavano, si raggrinzivano e si distendevano, infine sul suo viso compariva una smorfia. Sembrava sorridere, ma nessuno, al porto, può giurare di averlo mai visto sorridere, si accendeva una sigaretta storta e se ne andava con gli occhi lucidi.