Aveva orrore degli specchi. Quello che aveva in camera lo teneva sempre coperto. Iniziò tutto quando, appena presi i voti, il suo superiore lo mandò in una grande fabbrica di Milano a fare il prete operaio, con la missione di evangelizzare le masse metalmeccaniche, comuniste e senza-dio.
La sua vita divenne un susseguirsi di turni alle presse e cori in convento. Era la fine degli anni sessanta.
Avrebbe dovuto convertire gli operai atei ma furono loro, i deboli, gli sfruttati, a fare breccia nel suo cuore animoso. La lotta di classe avrebbe svelato la sua vera natura: trascorsero poche settimane e il giovane prete si fece crescere i capelli e indossò Eskimo e Clark.
«Prete, ti piacerebbe fare il servizio d’ordine nei nostri cortei?», domandarono quelli di Autonomia Operaia.
«Cosa dovrei fare?», chiese lui timidamente
«Prendi la Hazet-36, la chiave inglese. In fondo, sai già come si usa.»
Il giovane soppesò la chiave, poi sollevò l’utensile come un’ascia di guerra.
«Ora sei un vero antifascista militante!» risero i colleghi. Quella sera andarono tutti in Largo Richini, il ritrovo dei ragazzi della sinistra, e tornò in convento troppo tardi per i vespri.
Il giovane prete operaio ci prese gusto: ai cortei era sempre in prima linea, pronto a mollare fendenti con la chiave inglese.
Una notte nebbiosa decise che era venuto il momento di alzare il tiro. C’era da sistemare un neofascista che alla Statale aveva accoltellato uno studente. Lui si offrì volontario: passamontagna, eskimo, guanti e Hazet-36. Lo attese sotto casa, lo vide scendere dal bus e lo prese alle spalle: un tonfo, un lamento, sangue caldo sulle braccia e sulle labbra. Tornò in convento e crollò sul letto, le orecchie gli fischiavano e ogni muscolo del suo corpo vibrava, elettrificato dall'adrenalina. Lo aveva ammazzato: si sentì onnipotente.
Da quella sera non si sarebbe fermato. Andava a scacciare i neofascisti che volantinavano davanti ai licei o all'università. Erano ragazzini con giubbotti di pelle, Ray-Ban e coltelli a scatto. Lui tirava fuori la Hazet-36 e spaccava polsi e ginocchia. Uno lo aveva mandato in coma e non ne era più tornato, era la sua seconda vittima. Altre volte irrompeva alla fermata della metro a San Babila, i fasci tiravano fuori i coltelli a serramanico ma l’evangelizzazione delle masse in chiave inglese aveva la meglio e sanbabilini se la battevano, mentre lui se andava a bere con i compagni.
Un giorno però, mentre era nel refettorio del convento, vide al telegiornale la notizia che, per l’omicidio del fascista da lui commesso, la Squadra Politica aveva arrestato due ragazzini del Movimento Studentesco. Qualcosa si bloccò nel suo cuore violento. Corse in camera e andò in bagno a lavarsi la faccia. Quando alzò la testa dal lavandino vide il suo vero volto: nello specchio c’era un teschio sanguinante, dai denti affilati. L’orrore lo colse, ruppe lo specchio con un pugno e giurò che non vi avrebbe guardato mai più.
Decise di lasciare la sua missione di prete operaio. Gettò via kefiah, eskimo e passamontagna, ma dalla Hazet-36 non riuscì a separarsi.
Come tanti altri suoi compagni si riciclò: divenne insegnante in una esclusiva scuola privata cattolica. Trascorse anni sereni quando un giorno vide un suo collega uscire dagli spogliatoi della piscina, visibilmente agitato. Istintivamente guardò dentro. Un ragazzino seminudo piangeva su una panca. Guardò il collega allontanarsi nel corridoio sistemandosi i pantaloni. Quell'abuso riaccese il suo cuore rabbioso. Si chiuse in camera e scoprì lo specchio: dopo tanti anni guardò la sua immagine riflessa nello specchio. Nonostante la tonaca era inequivocabilmente un mostro, l’effigie di una morte violenta e dolorosa, ma quella maschera non gli faceva più paura: era rassegnato al suo aspetto. Quella notte prese la Hazet-36 ed entrò nella camera del collega.